sabato 14 dicembre 2013

ALDO MORO, IL VERO ARTEFICE DELLA SVOLTA VERSO IL MONDO ARABO

Cap. XI ALDO MORO, IL VERO ARTEFICE DELLA SVOLTA VERSO IL MONDO ARABO Dalla “questione d’Oriente” alla “questione araba” 1... La presenza di una nutrita e qualificata partecipazione democristiana nell’Associazione italo-araba aveva anche una spiegazione politica riconducibile al nuovo approccio della Dc verso il mon-do arabo. Una vera e propria svolta verificatasi, nella prima metà degli anni ’70, grazie all’intuizione che ne trasse l’on. Aldo Moro proprio a partire dalla presa del potere in Libia di Gheddafi e dall’inatteso cambiamento dei rapporti bilaterali che porterà all’espulsione degli italiani. Fu questo lo spunto, concitato e drammatico, per una presa d’atto del più generale cambiamento del mondo arabo post-coloniale che si caratterizzava per il suo nazionalismo panarabista, suffragato dal crescente ruolo economico strategico, soprattutto per la produzione di petrolio da cui l’Italia dipendeva quasi al 100%. Questi ed altri aspetti alimentarono una forte corrente d’interessi internazionali verso i paesi arabi, alla quale si associò, seppure con ritardo, anche l’Italia. Le tormentate vicende interne e i conflitti anticoloniali (Marocco, Tunisia, Algeria, ecc) e quello arabo- israeliano, che ancora oggi sembra insanabile, generarono movimenti popolari di liberazione che taluni, dimenticando quelli antifascisti europei, si ostinavano a definire sbrigativamente“terroristi”. Molti non si accorsero, o finsero, che, con la fine della seconda guerra mondiale e l’avvio del processo di decolonizzazione su sca-la planetaria, la “questione d’Oriente”, com’era intesa in chiave coloniale, era divenuta la “questione araba”. Stava nascendo, a due passi dall’Italia e dall’Europa, un “mondo nuovo”, carico di problemi e di potenzialità, che si estendeva dall’Atlantico al Golfo Persico, passando per il Mediterraneo. Un mondo che, dopo secoli di dominio coloniale, chiedeva un riconoscimento politico per la sua indipendenza, un posto dignitoso nella storia e nel libero con-sesso delle nazioni, un rapporto paritario con la nuova Europa in costruzione. Un processo interessante, a tratti controverso, di vitale importanza per i futuri assetti mediterranei e del mondo che, in Italia, soltanto la sinistra, in particolare il Pci, aveva colto e seguito e, in alcuni casi, aiutato concretamente. Il filo atlantismo commisto al pregiudizio antiislamico avevano impedito al mondo cattolico, ai suoi governi di assumere una posizione di comprensione, di solidarietà quantomeno politica. Come detto, la prima, vera occasione in cui i sommovimenti arabi destarono l’attenzione preoccupata degli italiani fu, proprio, la “rivoluzione” del 1° settembre 1969 in Libia ad opera del gruppo di giovani ufficiali guidati da Muammar Gheddafi. La presenza (e la sorte) di circa 20.000 italiani nell' ex colonia giustificavano la preoccupazione e inducevano il governo a intraprendere i passi necessari per tutelarla. 2... Contrariamente a quanto si pensa, non fu Giulio Andreotti a elaborare e a inaugurare la nuova politica estera italiana verso la Libia e, in generale, verso il mondo arabo. Fu Aldo Moro, nel 1969 ministro degli esteri, cui capitò fra capo e collo la responsabilità di gestire lo scottante dossier Libia, i rapporti col nuovo regime insediatosi a Tripoli, resi difficili dal rimpatrio forzato degli italiani. Una “rivoluzione” per tutti inattesa, svoltasi sulla falsariga di quella egiziana del 1952 attuata dagli “ufficiali liberi” guidati da Abdel Gamal Nasser. Gheddafi e i suoi commilitoni s’ispirarono alle idee e alle grandi opzioni politiche e sociali del “rais”, considerato il nuovo profeta della rinascita della “nazione araba” in chiave popolare e socialisteggiante, del quale si proclamarono seguaci… a sua insaputa. In sostanza, quei giovani ufficiali libici fecero la “rivoluzione” in nome di Nasser, senza preavvertirlo. Tanto che- nota Mino Vignolo nel suo citato libro “Gheddafi”- Muammar Heykal, inviato da Nasser per prendere contatto con gli autori del colpo di stato, atterrato a Bengasi cercò, invano, Abdulaziz: “Dov’è Abdulaziz? E’ convinto che il nuovo leader sia Abdulaziz Shalhi, il capo di stato maggiore dell’esercito con cui Nasser ha ottimi rapporti. Heykal non sa che il suo uomo che aveva preparato il putsch per il 4 settembre, è in carcere…” Evidentemente, ci fu un contrattempo nel calendario delle “rivo-luzioni”. Nel senso che Gheddafi anticipò di tre giorni la “sua” e, così, riuscì a fregare e, a incarcerare, il potente concorrente. Comunque, a parte tale inconveniente, i rapporti fra Gheddafi e il presidente egiziano furono intensi e proficui, fino al punto che Nasser, pochi mesi prima di morire, lo indicò come il suo “erede” politico più coerente e determinato. Aldo Moro, che era ben edotto sulla realtà di tali rapporti mediante le puntuali informative della nostra ambasciata del Cairo, colse il senso e la portata del mutamento politico avvenuto in Libia e in atto nel mondo arabo e, facendo di necessità virtù, impresse un approccio più ravvicinato e dialogante, di moderata autonomia (rispetto ai vincoli dell’Alleanza atlantica) alla politica estera italiana verso quelle realtà in ebollizione. La nuova impostazione nasceva, certo, dall’esigenza di tutelare gli italiani in Libia, ma anche da una prospettiva di collaborazione e di dialogo diretto, anche al di fuori della stringente logica dei blocchi contrapposti. Nell’ottobre del 1969 (a poco più di un mese dal colpo di stato di Gheddafi), in un discorso alla Camera, il ministro degli esteri Moro presentò le linee essenziali della nuova concezione dei rapporti politici con la Libia, indicando le principali direttrici di marcia per meglio affrontare i problemi specifici nel segno della collaborazione. Ecco un passaggio, commentato da Arturo Varvelli. “Il discorso di Moro aveva due valenze: era una chiara risposta alla sinistra, ma, non a caso, si rivolgeva direttamente a Gheddafi e ai nuovi governanti libici dopo gli attacchi alle potenze straniere dei giorni precedenti. Moro era preoccupato di delineare chiaramente la politica dell’Italia agli occhi della Libia. Quella del leader democristiano si profilava come una politica estera “etica”. Evidenziava l’anticolonialismo della Repubblica e si pronunciava a favore di un assoluto rispetto dell’indipendenza e dell’integrità di tutti gli Stati del Mediterraneo, e insieme tendeva una mano a quei Paesi, avendo probabilmente in mente la Libia, che desideravano agire in autonomia dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.” Concludendo con un’ assicurazione e con un invito rivolto ai capi del nuovo regime: “Siamo pronti a cooperare con i nuovi dirigenti libici nel comune interesse che lega i nostri due Paesi, le cui popolazioni si comprendono e le cui economie si completano, come è dimostrato dall’andamento degli scambi commerciali…” 1 3... L’intuizione di Moro fu, in generale, apprezzata e sostenuta dalla gran parte dello schieramento politico e parlamentare e sarà verificata, confermata e sviluppata nel corso degli anni successivi, sia nei rapporti con la Libia sia con altri Paesi maghrebini e arabi: Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Siria, Libano, ecc. Il punto più critico dei rapporti con i libici si raggiunse nel luglio del 1970, quando Gheddafi decretò l’espulsione dalla Libia di circa 20.000 1 A. Varvelli “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi” Editori Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009 italiani provocando un grave dramma sociale e umano e serissimi problemi al governo italiano. Moro, nell’impossibilità di bloccarla, se ne fece una ragione. Anzi, secondo un telegramma inviato il 6/9/70 da Tunisi ai Capi dello Stato e del governo italiani, ne diede un’interpretazione politica tendente a sdrammatizzare. “L'esproprio e la cacciata della comunità italiana servono in parte anche a coprire la ritirata ideologica di Gheddafi sul fronte della lotta a Israele, oltre che a ribadire il carattere rivoluzionario del regime. I Colonnelli han bisogno di gesti del genere (anche nel settore del petrolio, ove si contenteranno per ora dell'aumento del prezzo), così come continueranno ad avere bisogno di complotti, veri o falsi. A organizzare questi ultimi pensano i servizi speciali egiziani". (Alberto Custodero in “La Repubblica” del 9/8/2008). Se non proprio giustificativa, tale posizione appariva quasi comprensiva, tipica di chi non cerca vendetta ma un buon accordo. Una conferma indiretta di tale proposito si ebbe in quello stesso anno, quando l’opposizione libica, in combutta col governo ingle-se, mise in atto un piano per rovesciare Gheddafi. Aldo Moro avrebbe potuto aiutare i congiurati e punire chi aveva scatenato la campagna contro gli italiani. Invece, diede al generale Vito Miceli, capo del Sid, l’ordine di bloccare (a Mestre) la partenza della nave dei golpisti e così salvare Gheddafi e il nuovo regime da un attacco che poteva essergli fatale. Seguì, il 5 maggio 1971, un cordiale incontro tra Moro e il Colonnello nel quale il ministro degli esteri italiano si rese disponibile verso le richieste libiche, spingendosi addirittura- come sostiene Custodero - a promettergli la“fornitura di mezzi di trasporto navale ed aerei, in particolare elicotteri o aerei da addestramento ”. La nuova politica estera italiana verso l’area mediterranea e araba troverà la sua più solenne enunciazione nella Conferenza internazionale di Helsinki (1975) sulla pace e la sicurezza nel Mediterraneo. In quella eccezionale vetrina delle nazioni, Aldo Moro pronunciò un memorabile discorso nel quale ribadì ed ampliò la nuova strategia italiana, mirata a rinsaldare i legami di cooperazione pacifica con tutti i Paesi rivieraschi, alla ricerca di un ruolo dell’Italia, relativamente autonomo rispetto alle strategie Usa e Nato. Questo fu il vero punto di svolta della politica estera italiana che sicuramente sarà stato notato, e annotato, a Washington. Bisogna dare atto ad Aldo Moro di avere saputo, dal versante governativo, concepire e pilotare un processo fondamentale sul quale si baseranno le politiche dei governi successivi. A quel tempo, Andreotti, più volte ministro e capo del governo, giocava a fare il leader di una destra moderata, filo atlantica, che non disdegnava i voti della destra neofascista in Parlamento e i “consigli” provenienti dal Vaticano e dalla Casa Bianca. Soltanto nel 1976, col suo governo delle “larghe intese” e poi con quello di “solidarietà nazionale” (1978) nella cui maggioranza parlamentare figurava il Pci, l’on. Andreotti raccoglierà (quasi se la intesterà) quella ispirazione, dai comunisti molto caldeggiata, volta a costruire una nuova e unitaria politica araba e mediterranea dell’Italia. D’altra parte, è noto che l’on. Andreotti non fu un grande stratega ma, soprattutto, un diligente esecutore. A tale svolta contribuì, in misura rilevante, il Pci che, fin dalla fase delle lotte di liberazione nazionale dei paesi arabi, era stato l’unico partito italiano a prospettarla, a rivendicarla, facendo anche tesoro dell’esperienza di Enrico Mattei nel mondo arabo. Quando i capi della Dc (fra questi anche Amintore Fanfani) si accorsero della “questione araba”, il Pci aveva, da anni, maturato un patrimonio di contatti e di proposte, realizzato esperienze di solidarietà e collegamenti con movimenti e partiti arabi, la gran parte dei quali erano al governo nei rispettivi Paesi. Insomma, questa convergenza non fu un “inciucio”. Da entrambi le parti (Dc e Pci) si era consapevoli di aver operato una scelta responsabile, impegnativa, autonoma a difesa della pace e della cooperazione nel Mediterraneo, a tutela dei legittimi interessi economici italiani nel mondo arabo. Il generale Miceli in soccorso di Gheddafi 1... In questo nuovo clima, i governanti italiani, al pari di taluni altri leader europei, agirono per proteggere il regime del giovane Colonnello dagli attacchi e dai tentativi di golpe portati avanti dall’entourage del re Idriss in combutta con vecchie potenze coloniali. In diverse occasioni, l’Italia svolse un ruolo, addirittura, di tutela del nuovo regime di Tripoli. Abbiamo già detto del soccorso dato a Gheddafi, nel 1970, per far fallire “l’operazione Hilton”. La collaborazione tra i servizi continuò nel tempo. Ovviamente, Miceli non agì per simpatia personale verso il Colon-nello ma, come più volte mi raccontò, per ordine dei governanti italiani, in particolare di Aldo Moro, i quali, saggiamente, erano consapevoli che per tutelare gli interessi italiani in Libia bisognava salvare Gheddafi. Vicende arcinote anche perché oggetto di numerose inchieste gior-nalistiche e perfino d’indagini giudiziarie che, però, il generale, divenuto nel 1983 mio collega in commissione Difesa e vicino di ufficio nell’ex convento di Vicolo Valdina, ogni tanto mi raccontava, ripetendosi. Forse, pensando di farmi cosa gradita, poiché sapeva delle mie relazioni politiche con esponenti libici, palestinesi e di altri Paesi arabi. Del resto anche di lui si diceva che fosse “filo arabo”. Etichette, usate per sviare i problemi, per non affrontarli. Personalmente, non sono stato mai “filo” qualcosa o qualcuno, ma solo un sostenitore della giusta causa dei popoli arabi e in particolare di quello palestinese. Per questo mio impegno fui indicato, in un discorso alla Camera, da Giorgio Almirante (capo politico di Miceli) come “amico” di Arafat e dei gruppi “terroristi” palestinesi e arabi. Venendo da lui, considerai l’accusa un grande onore! 2... A scanso di equivoci, desidero precisare che col generale Vito Miceli non ebbi mai relazioni confidenziali, di vera amicizia. Eravamo collocati su sponde politiche contrapposte. Ci divideva il fiume della storia: lui sulla riva destra ed io su quella sinistra e non c’erano ponti a congiungerle. Fra noi ci fu solo un rapporto fra colleghi di commissione che si rafforzò a seguito di un episodio accaduto a New York, durante una visita negli Usa di una delegazione della commissione Difesa. Il fatto successe in una gelida sera di febbraio 1986, all’uscita dal teatro Broadway, dove eravamo andati a vedere il celebre musical “Cats”. Nella via c’era un freddo estremo, provocato da folate di vento glaciale provenienti dal nord. Eravamo in attesa del “verde” per raggiungere il ristorante posto nella parte opposta dell’avenue. Improvvisamente, vedemmo il generale accasciarsi a terra. In quel trambusto e nell’attesa di trovare un medico, pensammo di toglierlo dal gelo e di portarlo, a braccio, all’interno del ristorante. Al caldo, l’anziano generale si riprese; “niente, nulla di grave…” ci rassicurò. Non volle che chiamassimo un medico per un controllo. Partecipò al pranzo, come previsto. Dopo questo episodio, Miceli prese a guardarmi con una certa simpatia. Mi chiamava “paisà” per via della comune origine siciliana (era nativo di Trapani anche se mi disse che la famiglia paterna proveniva da Castronovo di Sicilia, in provincia di Palermo). Da vecchio volpone, con l’occhio allenato, più di una volta mi avvertì di “fare attenzione” alla bella interprete che spesso s’intratteneva con me. “Stai attento, paisà, quella è una tigre. Te l’hanno messa alle calcagna per controllarti”. Los Angeles, marzo 1986. Agostino Spataro e Vito Miceli durante il viaggio negli USA Lo diceva con un sorrisino appena accennato che lasciava trapelare tutta la sua esperienza in fatto di spionaggio e di controspionaggio. La cosa poteva avere anche un fondamento poiché ero uno dei tre comunisti approdati negli Usa, in deroga a un divieto di legge, che stavano visitando importanti basi militari americane, compresi i silos dei missili nucleari intercontinentali. 3... La visita della delegazione in Usa andò molto bene. Fu molto utile (almeno per noi) per conoscere taluni aspetti delle relazioni politiche bilaterali in campo militare e anche alcuni siti e infrastrut-ture di notevole importanza strategica. Il dato più rilevante, inedito, sul piano politico di quella visita era costituito dal fatto che, per la prima volta, alcuni esponenti qualificati del Pci erano stati invitati, ufficialmente, dall’amministrazione Reagan e ricevuti al Pentagono dal segretario della difesa in carica. Come scrissero diversi quotidiani nazionali (dal “Messaggero” al “Giorno”, da “l’Unità al “Il Tempo” ecc), “per la prima volta Weimberger ha ricevuto (al Pentagono) tre parlamentari comunisti italiani: gli onorevoli Vito Angelini, Giuseppe Gatti e Agostino Spataro.” Di là delle persone coinvolte, il fatto ebbe un certo rilievo per questa “prima volta” di tre esponenti del Partito comunista italiano che mettevano, ufficialmente, piede dentro il Pentagono. La preparazione della delegazione era stata molto laboriosa e accompagnata da una sorta di trattativa fra la Camera dei Deputati e la sede diplomatica Usa per aggirare, in qualche modo, il divieto di ingresso di comunisti negli States. Per altro, in base al programma della visita, i delegati comunisti avrebbero avuto contatti politici qualificati e accesso ad alcune importanti infrastrutture missilistiche (anche nucleari) e di comando e controllo. Alla fine, prevalse il buon senso. L’ostacolo fu aggirato sulla base di un escamotage secondo cui la nostra richiesta di visto non era avanzata da cittadini italiani iscritti al Pci, ma da membri del Parlamento italiano invitati, in delegazione, dal ministero della Difesa Usa. Strani questi americani! Avevano fatto tante storie per concederci il visto d’ingresso, ma, una volta entrati, ci hanno fatto visitare perfino una batteria di missili nucleari intercontinentali in una base dell’Ohio, vari sistemi d’arma, i laboratori di ricerca sulle “armi stellari” a Livermore (San Francisco) e il comando sotterraneo del Norad di Cheyenne Mountain, nei pressi di Colorado Spring. L’unico divieto al quale tenevano era quello di non fotografare gli impianti. E noi lo rispettammo! 4... Fummo ricevuti al massimo livello politico e militare: dal Segretario di Stato alla Difesa, Caspar Weinberger, e dall’ammiraglio William Crowe, presidente del comitato dei capi di stato maggiore delle forze armate statunitensi. Anche questo era un segno importante di considerazione politica per una delegazione parlamentare italiana che, per giunta, includeva alcuni deputati comunisti. Nei pourparler preparatori dei due incontri politici feci sapere ai colleghi della delegazione che ero intenzionato a porre al segretario di Stato e all’ammiraglio una domanda circa le voci, già circolanti in taluni ambienti in Italia, di un prossimo attacco Usa alla Libia. Fui vivamente sconsigliato dal porre domande del genere che avrebbero potuto turbare il clima di amicizia e l’ottima accoglienza riservataci, senza, per altro, potere sperare di ottenere una risposta appropriata. L’on. Attilio Ruffini, capo della nostra delegazione, me lo disse più di una volta: “Mi sembra una cosa inutile oltre che inopportuna. E poi, scusami, ammesso che ci sia qualcosa di vero, lo vengono a dire a te, a me?” Anch’io ero convinto che l’avrebbero negata o ignorata. Tuttavia, posi lo stesso la domanda per far sapere loro che la “cosa” già si sapeva in giro. Infatti, Crowe negò tale possibilità senza tentennamenti, mentre Weimberger, semplicemente, non rispose alla domanda. Salvo, 40 giorni dopo, scatenare il micidiale attacco contro la Libia. La super corrente “filo araba” della Democrazia Cristiana 1... Come detto, la svolta di Moro, proseguita da Andreotti, si trascinò dietro buona parte della Democrazia Cristiana, personalità eminenti del Vaticano, settori dei movimenti sociali e del sindaca-lismo d’ispirazione cattolica, enti a partecipazione statale, ecc. L’Eni aveva già una sua politica estera “filoaraba”. L’Associazione italo - araba prese atto, con soddisfazione, di tale cambiamento e, per tutta, risposta rielaborò la sua impostazione politica, rinnovò e ampliò la sua struttura dirigente, stabilì nuove relazioni con i partiti italiani di governo e di opposizione. Realizzò la sua piccola svolta col pieno accordo di Lelio Basso il quale lasciò la presidenza effettiva per favorire il “nuovo corso” e il più ampio processo di accorpamento politico unitario all’interno dell’associazione. Ai rappresentanti dei partiti e dei sindacati di sinistra (soprattutto del Pci e dell’ex Psiup) e di alcuni movimenti e centri d’ispirazione terzomondista, si aggiunsero autorevoli rappresentanti della sinistra democristiana, della Cisl, del Psi e qualcuno perfino del Psdi. Aderirono anche alcuni fra i più eminenti orientalisti e insigni esponenti del mondo accademico (fra cui: i professori Francesco Gabrieli, Umberto Rizzitano, Bianca Maria Scarcia Amoretti, Francesca Corrao, Franco Cardini, Giorgio Giovannoni; giornalisti di primissimo piano fra i quali Igor Mann (celebre inviato de “La Stampa”), Dino Frescobaldi, (inviato e acuto editorialista del “Cor-riere della Sera”), Eric Salerno (inviato de“Il Messaggero”), Giancarlo Lannutti (inviato de “l’Unità”), ecc. Insomma, il meglio che c’era sulla piazza. Queste personalità non furono inserite negli organi direttivi come elementi puramente decorativi, ma partecipavano attivamente al dibattito e alle iniziative dell’Associazione della cui presidenza nazionale erano membri. In questa veste, Dino Frescobaldi fu incaricato di curare i delicati rapporti col fondo arabo (Anaf) di Londra. Attorno all’Associazione si aggregò una buona compagine, amica della giusta causa araba e non nemica dei legittimi diritti d’Israele, rappresentativa dell’intero “arco costituzionale”, come, allora, si usava dire. Solo i repubblicani non vollero aderire. Credo per una sorta di pregiudizio verso gli arabi. Pazienza. In verità, nessuno sentì molto la loro mancanza. Molti, in Parlamento e sui giornali, scambiarono il sodalizio per una “lobby” araba da contrapporre a quella ebraico/ israeliana che, effettivamente, operava da anni con efficienza e senza tanti clamori. In realtà, la nostra non fu mai un’azione da lobby, né da “gruppo di pressione” a tutela d’interessi particolari o, peggio, illeciti, ma un’iniziativa politica pubblica a favore delle cause giuste (o da noi ritenute tali) e in generale tesa a migliorare le relazioni politiche, economiche e culturali tra il mondo arabo, l’Italia e l’Europa. 2... Per un accordo non codificato, presidente dell’associazione veniva eletto un esponente di primo piano della sinistra della Democrazia Cristiana, possibilmente membro del governo. Fra questi: Virginio Rognoni (più volte), Luigi Granelli, Franco Maria Malfatti, tutti ministri o ex ministri. Negli organismi direttivi figuravano diversi parlamentari di un certo prestigio, fra cui: Al- berto Aiardi, Gilberto Bonalumi, Paolo Cabras, Calogero Pumilia, Piero Bassetti, Guido Bodrato, Franco Foschi, Carlo Fracanzani, Giuliano Silvestri, Franco Salvi, Angelo Sanza, il sen. Giuseppe Orlando. Insomma, quella democristiana era una componente numerosa e molto attiva nell’Associazione. Gli unici due presidenti non democristiani furono il dottor Giuseppe Ratti, già presidente dell’Eni, e il dottor Rinaldo Ossola, ex direttore generale e vicegovernatore della Banca d’Italia, già ministro per il commercio estero. Ossola fu eletto, agli inizi degli anni ’80, in primo luogo, per le sue ottime referenze politiche e professionali, per il prestigio, anche internazionale, della sua personalità, ma anche- diciamolo pure - perché, essendo di area Pri, si sperava in un rapporto proficuo con il senatore Giovanni Spadolini, che, in quel momento, era il primo presidente del Consiglio non democristiano, dopo Ferruccio Parri. Rinaldo Ossola fu un ottimo presidente, competente, aperto e unitario. Il nostro obiettivo era di far valere i giusti diritti dei popoli arabi, in particolare di quello palestinese, senza contrapporli a quelli altrettanto giusti del popolo israeliano ad avere uno Stato sovrano e sicuro entro i confini sanciti dalle risoluzioni dell’Onu. Tutte le pretese che andavano fuori di tale contesto, non potevano essere da noi sostenute. Questa era la nostra regola. Purtroppo, chi la trasgrediva, collocandosi fuori del contesto legale delle Nazioni Unite, erano, in primo luogo, i governi israeliani che rifiutavano di applicare le diverse risoluzioni dell’Onu che impongono la restituzione dei territori palestinesi e siriani occupati dal 1967. Com’è noto, tale rifiuto persiste fino ai nostri giorni. La visita di Jallud a Roma 1... Durante la presidenza Ossola, accadde un episodio, a dir poco, singolare che i giornali enfatizzarono nei suoi aspetti più bizzarri per farne un caso di stravaganza protocollare e d’inaffidabilità dei dirigenti libici. Mi riferisco alla visita a Roma del maggiore Abdessalam Jallud, numero due e primo ministro del regime libico. E vera testa politica pensante, aggiungo io. Prima di raccontare il fatto, bisogna ricordare gli antefatti. Da anni, e da più parti, si lavorava per convincere il governo italiano a invitare, a Roma, Muammar Gheddafi, leader di un Paese con il quale l’Italia, oltre ai rapporti storici, intratteneva ottime relazioni economiche e commerciali. D’altra parte, già un Paese europeo, l’Austria, aveva ricevuto il Colonnello ai massimi livelli istituzionali. I diversi governi italiani, invece, non si decidevano a diramare l’invito per contrasti interni al blocco di maggioranza. Sapevamo che buona parte dei membri del governo, la stessa presidenza della Repubblica, avrebbero voluto invitarlo, ma c’erano forze potenti, interne e internazionali, che opponevano una sorta di veto politico. Figurarsi con l’arrivo a Palazzo Chigi di Spadolini. Manco a parlarne! A un certo punto, fu affacciata un’ipotesi subordinata: invece di Gheddafi, invitare Jallud, suo intimo amico e consigliere, il quale nella complessa macchina di governo libica svolgeva mansioni equivalenti a quelle di “primo ministro”. Pareva un compromesso accettabile, equo. Spadolini, però, non volle sentire ragioni: non si opponeva in linea di principio alla visita, ma dichiarò che non l’avrebbe ricevuto a Palazzo Chigi, come prescriveva il protocollo oltre che il buon senso politico. I libici dell’ambasciata di Roma erano furenti e, facendo eco alle reazioni di Tripoli, consideravano l’ulteriore rifiuto un grave errore per l’Italia e un modo rozzo e lesivo della dignità e della sovranità libiche. Effettivamente, Tagazzi aveva ragione di protestare. Spadolini era irremovibile, perfino alterato, nel trattare la questione. Dimenticando, oltre le buone maniere, che in ballo c’erano interessi davvero vitali dell’Italia e tanti importanti dossier che attendevano di essere esitati dalla Commissione mista italo-libica che non si riuniva da cinque anni. 2... Ecco allora affacciarsi una soluzione, eccepibile sul piano protocollare, tuttavia utile per evitare una crisi seria nelle relazioni fra i due governi. L’idea era la seguente: Jallud poteva venire in Italia per svolgere i vari incontri politici, ministeriali e istituzionali (sarà ricevuto da Ciriaco De Mita, da Enrico Berlinguer, dal presidente del Senato, Amintore Fanfani), mentre avrebbe potuto incontrare il capo del governo, Spadolini, (suo pari grado) in casa del suo amico Rinaldo Ossola, presidente dell’Associazione nazionale di amicizia italo araba, dove entrambi sarebbero stati invitati a cena. Spadolini si dichiarò possibilista. Non poteva dire di no anche a una cena in casa di un amico. I libici si sentivano insultati, discriminati poiché, negli stessi giorni della visita di Jallud, sarebbe stato ricevuto dai massimi rappresentanti istituzionali italiani un altro leader della “nuova”Africa, il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. All’ambasciata della Jamahjrya mordevano il freno per non mandare tutto per aria. Alla fine, si concordò per la cena in casa Ossola, in via dei Due Macelli, a Roma, alla quale avrebbero partecipato Jallud e Spadolini e pochissime altre persone. Tutto pareva essere stato appianato, il clima si rasserenò, anche se qualche mugugno ancora circolava. 3... Venne la sera dell’incontro a cena. Il fatto mi fu raccontato da alcune persone bene informate. Spadolini si presentò in casa dell’amico Ossola, con un po’ d’anticipo sull’ora concordata, in attesa di Jallud il cui arrivo era stato confermato dall’ambasciata, qualche ora prima. Giunse l’ora ma non Jallud. Ma si sa- avranno pensato i commensali- gli arabi sono come i siciliani che fissano un appuntamento a un’ora quasi sempre approssimativa: “ci vediamo verso…”. Quasi che per arrivare all’ora stabilita ci fosse un cammino da fare nel…tempo. Trascorsero i minuti, la mezz’ora, l’ora, le ore e di Jallud nemmeno l’ombra. Non arrivò neanche una telefonata per giustificare il clamoroso ritardo. Da casa Ossola si cercò di contattare l’ambasciata ma, a parte il centralinista, nessuno dei funzionari era in sede. Spadolini diventò rosso in viso come un peperoncino indiano, indignato e infuriato, ruppe gli indugi e lasciò la casa dell’amico senza assaggiare nulla di quel ben di Dio che la gentile signora ospite aveva fatto preparare con certosina ricercatezza, tenendo conto del livello e dei gusti degli illustri commensali. 4... L’episodio, a dir poco imbarazzante, circolò negli ambienti diplomatici, in Parlamento, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Ne parlai con Mufta funzionario dell’ambasciata libica, un amico personale col quale, talvolta, si poteva perfino ironizzare, senza nominarlo, su qualche marachella del Colonnello. Questi mi disse che la messinscena fu architettata, personalmente, dal maggiore Jallud il quale, pur essendo molto dispiaciuto di non potere onorare l’invito del dottor Ossola, decise di sabotare la cena per“indispettire Spadolini, per fargli provare cosa significhino la discriminazione, le cattive maniere”. Invece che a via dei Due Macelli, a casa di Ossola, Jallud e la numerosa delegazione libica, si diressero a un altro indirizzo nei dintorni, in via Veneto, in uno dei tanti locali della “Dolce vita” a fare bagordi. Per Sandra Bonsanti “Jallud ballava la danza del ventre, coperto solo di un pareo, in un grande albergo di Roma…” 2 Su questo particolare nulla mi fu riferito dal mio amico. Evidentemente, la giornalista invece di richiamare la grave responsabilità di Spadolini per avere discriminato il “primo ministro” di un Paese con il quale l’Italia intratteneva relazioni molto importanti, tese a ridicolizzare il “discriminato”. Vecchia e abusata tattica! Quell’episodio, con Spadolini furioso e i giornali che ci ricamavano sopra, rischiava di innescare una grave tensione nei rapporti fra i due Paesi. Per quel che si poteva dire, senza alludere all’episodio, feci una dichiarazione ripresa da “l’Unità”, nella quale ricordavo agli scandalizzati giornalisti e agli smemorati di Palazzo Chigi che “la Libia è uno dei rari Paesi Opec con cui 2 S. Bonsanti in “La Repubblica” del 15/5/1986 l’Italia mantiene, ormai tradizionalmente, rapporti economici e di scambio reciprocamente vantaggiosi, mentre con altri si registrano pesanti deficit a nostro sfavore…importanti forze politiche ed economiche, in Italia e fuori, da tempo lavorano per il deterioramento delle eccellenti relazioni economiche esistenti fra i due Paesi….Tali azioni di deterioramento si inquadrano nella“più generale manovra politica, pilotata dall’attuale amministrazione Usa, per strozzare Gheddafi e il suo regime”. Anche per questo il deputato comunista- aggiungeva l’Unità - critica, con particolare vigore il fatto che i nostri governanti rifiutano di invitare in Italia il colonnello Gheddafi, come hanno già fatto l’Austria e altri Paesi.” 3 5... Il comportamento di Jallud colpì anche noi, soprattutto per l’imbarazzo che avrà creato a Rinaldo Ossola che, gentilmente, si era prestato a organizzare l’incontro fra i due primi ministri. Nonostante la “marachella” anti- Spadolini, non mutò il nostro punto di vista su Jallud che, insieme con altri pochi, consideravamo uno dei più equilibrati e acuti dirigenti libici. La mia stima verso Jallud continuò nel tempo. Ricordo di averlo ascoltato in un discorso, del 10 giugno 1989, tenuto nella sala congressi della “Torre Imad” di Tripoli in occasione della conferenza sui diritti umani nell’area mediterranea organizzata dal PSOM, presieduto da Carmine Bonnici, ex primo ministro laburista di Malta. Una parentesi. In quell’occasione venne con me un giovane compagno sardo, di lontane origini siciliane, Oliviero Diliberto, studioso di diritto, che includemmo nella delegazione su segnalazione del comune amico on. Umberto Cardia. Diliberto fece una buona impressione agli organizzatori libici tanto che lo invitarono a presiedere, insieme a me, una sessione della conferenza. Credo che quell’esperienza internazionale sia stata quantomeno di buon auspicio per Diliberto che, di lì a qualche anno, sarà nominato “guardasigilli” ossia ministro di Grazia e Giustizia nel governo di Massimo D’Alema (1998- 2000) 3 A. Spataro in “l’Unità” del 22/5/1982 Tripoli, 1989. A. Spataro, O. Diliberto, dr. Miloud, segretario del PSOM, alla presidenza del Simposio sui diritti umani. Chiudiamo la parentesi e torniamo a Jallud che quella mattina alla conferenza era la “star”. Si capì subito, poiché i lavori iniziarono con circa due ore di ritardo, in attesa che arrivasse il “numero due”. Parlò circa un’ora e mezza e fece un buon discorso, ricco di argomentazioni, di dati, di riflessioni politiche e perfino filosofiche. Soprattutto, colpiva il suo modo di parlare, di atteggiarsi. Non era tronfio, pretenzioso, imperativo ma persuasivo, flemmatico, con alti e bassi intervallati da lunghe pause, talvolta, troppo lunghe che ci fecero temere un blocco del discorso. Di fronte a quell’uditorio internazionale egli, più che l’applauso, cercava il consenso. Quel giorno Jallud consegnò un premio di 250.000 dollari a Maki, la bellissima figlia di Nelson Mandela, venuta a ritirarlo per conto del padre ristretto nelle carceri segregazioniste del Sud Africa. Una bella cifra che, oltre al riconoscimento politico e morale dovuto al grande combattente antirazzista, contribuiva a finanziare la lotta dell’ANC contro il regime dell’apartheid sudafricano. Un aiuto importante alla lotta di liberazione dal razzismo che, sicuramente, qualcuno annoverò nella lista degli “aiuti di Gheddafi al terrorismo”. 6... Oggi, nel mondo, tutti corrono a rendere omaggio al vecchio Nelson Mandela, eroe della libertà e della dignità del suo popolo, dell’Africa nera finalmente liberati dal razzismo al potere. Tuttavia, mentre questa lotta si svolgeva, erano veramente pochini coloro che la sostenevano con donazioni e aiuti concreti. E tra questi pochi c’era Gheddafi. Di ciò non si sono dimenticati gli attuali dirigenti sudafricani i qua-li, nel corso della guerra civile del 2011, hanno tentato una mediazione per giungere a una soluzione politica nazionale e, credo, an-che per salvare la vita al loro, generoso benefattore. Insomma, ebbi l’impressione che Jallud fosse un “tipo in gamba”, anche perché, dopo vent’anni, era ancora il numero due del regime. A quel tempo, la cerchia dei numeri primi o interpari si era ristretta, pericolosamente. Dal Comando generale, composto di dodici membri, erano usciti (o fuggiti) circa la metà, ben presto rimpiazzati. Erano sempre in dodici, tuttavia i numeri che effettiva- mente contavano erano cinque o sei. Dall’esterno, si aveva la sensazione che in Libia il potere reale restava concentrato nel vertice ristretto del Comando generale della rivoluzione ossia di Gheddafi e di alcuni suoi fidati consiglieri, fra i quali, in primis, Jallud. Ai primi anni ’80, fu varata una riforma profonda del sistema di governo in base a un meccanismo articolato su due piani istituzionali: il primo, rappresentato dal comando della rivoluzione, formalmente deresponsabilizzato, che rispondeva solo a Gheddafi, il quale, a sua volta, sosteneva di essere solo una “guida” morale non più il capo politico del regime; il secondo, costituito dai Comitati popolari (a vari livelli) che rispondevano al Comando della rivo-luzione e al popolo che, certe volte, era più tiranno ed esigente del Colonnello. Un modello, a dir poco singolare, ambiguo che, però, favoriva un circuito di partecipazione popolare, sconosciuto in altri paesi arabi nei quali la tirannia era assoluta e personale.

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